Marco Geronimi Stoll

pubblicitario disertore

ferri del mestiere, i più letti, Smarketing

10 idee di smarketing a Trento

Sono tornato da Fa’ La Cosa Giusta a Trento, dal 23 al 25 ottobre 2009.

A parte l’ottimo successo di pubblico, la fiera del consumo critico e degli stili di vita sostenibili è stata un’occasione di incontro molto interessante con varie aziende della decrescita: agricoltori bio, artigiani, operatori delle energie rinnovabili, del turismo responsabile, enti pubblici. Ad essi ho ripetuto una decina di ideuzze per mostrare che c’è un modo etico di fare pubblicità, che qui riassumo in poche parole.

Dieci ideuzze del pubblicitario disertore

Riassumo le cose che ho ripetuto a Trento per tre giorni di fila, a chi mi veniva a trovare allo stand.

La pubblicità può essere etica se:

1, se il comunicatore invece di allungare la filiera tra produttore ed acquirente con costi aggiuntivi (per sé e per i media) la accorcia, creando canali ed opportunità per ridurre le intermediazioni ed il loro costo ecologico, economico e sociale,

2, se il comunicatore rifiuta per principio quei clienti che non rispettano i criteri sociali ambientali ed etici che stanno alla base dell’economia della decrescita (domanda di tutti: ma come puoi farcela a vivere? rispondevo paragonandomi a un contadino bio cui tutti chiedono “ma come fai a non dare le medicine nel campo?”)

3, postulato al 2 , se rifiuta non solo di pubblicizzare l’azienda compromessa o impattante, ma anche le aziende (o i marchi di aziende) “pseudo” cioè che utilizzano l’estetica e il sentimentalismo di temi importanti (del terzomondismo, dell’ambientalismo, del femminismo…) senza però essere coerenti nei fatti con la sostanza del proprio business principale (lo so, si rinuncia ai budget più ricchi, ma sono la mela di Biancaneve)

4, se si riduce al massimo l’impatto ambientale della comunicazione, ad esempio scegliendo la carta, i materiali degli stand, i mezzi con cui si viaggia… ne vale la pena sia per l’impatto in sé; sia per fondare un’estetica del sobrio, che è un esercizio di stile; sia perchè è un esempio per gli altri che genera mainstream

5, se sceglie software libero, telefonia etica, corrieri in bici, uffici con energie rinnovabili, mensa bio e ogni sistema di potenziamento reciproco con altre iniziative positive

6. se fa rete coi piccoli concorrenti; spesso i comunicatori locali pagano lo scotto di un paese a bassa cultura comunicazionale e credono che saper fare il grafico sia saper usare i software grafici, che essere un webmaster siignifichi conoscere l’html, eccetera. Spesso sono oggettivamente un danno per le aziende, che scelgono loro per risparmiare; possono diventare facilmente una risorsa, i loro limiti non sono individuali ma formativi. Invece di fare il primo della classe e usare la qualità come monopolio, il comunicatore etico mette in rete i comunicatori di provincia con altri giovani, attualmente sfruttati dalle grandi agenzie pubblicitarie milanesi, che invece hanno la competenza ma non l’autonomia; crea corsi, seminari, consulenze, affiancamenti; spesso li aiuta insieme ai loro clienti con consulenze brevi ed economiche e trasforma le piccole commesse in laboratori di crescita professionale

7, chiediamoci: è possibile essere etici e poi far pubblicità su testate o emittenti che fan parte di monopoli, che gerarchizzano il mercato pubblicitario, che propagandano ossessivamente l’ideologia del consumismo e della cosiddetta “crescita”? Secondo noi possiamo uscire da questa trappola, ed è necessario farlo non solo per motivi etici ma anche strategici: quell’idea di pubblicità è strutturata apposta per far vincere il grosso sul piccolo. Ovvio, ci sono deroghe e lasciapassare che ciascuna azienda deve valutare, non dev’essere un discorso moralistico; ma noi possiamo dimostrare che è possibile farlo e che funziona.

8. se crea siti web che il cliente possa amministrarsi da solo, liberandolo il più possibile dalla dipendenza verso i tecnici

9 se inverte il concetto di target: la pubblicità dice “target” come un cecchino che mira all’obiettivo; noi invece diciamo che il target deve diventare il produttore, che l’acquirente deve cercare e poter trovare.

10  invertire il target significa abbattere il 95% dei costi del processo pubblicitario tradizionale; resta quel 5% che significa che hai pochissimi contatti pubblicitari, ma molto motivati, competenti sulla qualità e disponibili all’acquisto. Sarebbe gravissimo sprecare quei contatti con un logo cialtronesco, un volantino illeggibile o un sito mai aggiornato… questo ucciderebbe l’azienda, la toglierebbe drasticamente dal mercato. Lo smarketing non è una scusa per una comunicazione mal progettata o poco estetica, anzi si deve fare poco in quantità ma molto, moltissimo in qualità. La qualità sobria.

7 Comments

  1. G.P.

    Ciao Marco; tu sai chi sono. Ne hai detta una undicesima, che quelli che fanno pubblicità commerciale tutta la settimana e poi nel weekend fanno gli spot per Greenpeace o per Amnesty sono come persone che picchiano la moglie nei giorni feriali e poi fanno pubblicità alle femministe il sabato. Non ti sembra di esagerare un po’?

  2. Marco

    Ciao, caro. Ma c’eri? non ti ho visto! Niente di personale, ma il concetto è chiaro. Non è un giudizio morale, è un parere etico; posso continuare a volerti bene e stimarti molto, e tuttavia essere perfettamente convinto di quel che dico: che promuovere certe aziende è paragonabile a picchiare le donne. Saluta tua moglie ( lo so che non la picchi…)

  3. stefano giannelli

    Scopro solo adesso questo splendido sito. Sento che sto per scriverti una lettera che sarà un mix tra disperazione, comicità e un pò di ottimismo (ma poco).

    Un calorosissimo abbraccio.

    Stefano.

  4. SG

    Mi permetto di correggere l’esempio. Chi si occupa di commercializzare certi prodotti e poi nel week end fa gli Spot per aiutare alcune no profit non è una persona che commette stupri e poi pubblicizza il femminismo. Dipende. Può essere così, o anche peggio. A volte si potrebbe dire che il professionista che opera così è uno che paga delle prostitute tutta la settimana e nell’week end vuole anche i Trans.
    Non sempre il noprofit è sinonimo di correttezza e trasparenza. Il 90% delle associazioni sono sane e composte da persone per bene. Il resto è profit con un “no” negativo davanti che ricorda che il profitto ottenuto viene speso durante l’anno. Nient’altro. Stesse logiche e stesso atteggiamento di una qualunque azienda “business oriented”. Solo che vende un’idea e non un prodotto. Spesso l’idea è assai fragile se deve essere pubblicizzata sui mezzi mainstream. O se su internet utilizza finestre pop up non richieste. O no?

  5. Marco

    1. Chi c’era a Trento non corre davvero il rischio di somigliare a certe ong (che un amico in un altro post ha chiamato “turbocapitalismo della carità”).
    2. Quanto al paragone con chi picchia la moglie: G.P. mi ha citato ma con parole sue, parecchio più dure delle mie originali.
    3. Ci servono tutti professionisti, anche quelli che non hanno ancora scoperto “l’illuminazione dello smarketing” e la decrescita; tuttavia noi facciamo bene a reclamare la loro coerenza.

  6. Marco

    Spiego meglio la 3
    Il professionista non coerente mi preoccupa non per motivi morali (che pure ci sono, ma sono abbastanza personali e a me non piace il ruolo del moralista); mi preoccupa piuttosto per lo statuto del suo mestiere: un pubblicitario, come un avvocato, un commercialista o un medico… opera con tecniche e metodologie che non sono affatto oggettive ed universali. Fonda la logica del suo lavoro su quali fondamenti? su quali scopi? cambiando la risposta, cambiano le tecniche che adotta, le procedure, i criteri, le priorità, le tecnologie…
    Questo è il problema.

  7. SG

    P.S. L’amico di là sono sempre io! La defizione “turbo capitalismo della carità” è una libera interpretazione di un saggio economico di Giulietto Chiesa. Ho aggiunto “della carità” perchè certi sistemi di raccolta fondi non hanno nulla a che fare con la cooperazione internazionale e la sensibilizzazione sulle tematiche proposte. Segno evidente che il consiglio di amministrazione della noprofit in questione ha deliberato una cosa semplice: “Vogliamo soldi, subito. Non sostenitori consapevoli”. Il mercato dell’economia noprofit è un mercato complesso. Se permettiamo a 30 ONG di comportarsi come si comporta la Nestlè o la Coca Cola ci rimettono tutti (cioè ci rimettono i potenziali beneficiari delle organizzazioni: i bambini, le vittime delle nostre guerre, l’ambiente (quello vero, non quello dei rotoloni regina con il Panda) ecc).
    Interessante questa discussione!

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