Marco Geronimi Stoll

pubblicitario disertore

costume, ferri del mestiere, scuola

Spot e scuola: crescere o imparare?

In questo momento ci sono tre nostri spot che girano su Radio Popolare;
– quello di dkr.it sull’acqua pubblica
– il mio per il corso di smarketing a Milano, alla Santa Brera
– un terzo per la più famosa associazione di campi vacanza italiana, questo: campi avventura 2011

Di questo terzo voglio parlare con voi: tale associazione ha ricevuto due mail di protesta; io personalmente ne ho avuta una terza; le copincollo:


Se due scrivono, certo venti hanno pensato di scrivere e 200 hanno provato un qualche fastidio.
Giordana scrive:
“Sto sentendo alla radio la pubblicità dei vostri campi avventura in cui affermate che si impara più in una settimana di vacanza che in un anno di scuola. Non vi importerà, ma ritengo queste parole diseducative e offensive per tutti coloro che nella scuola lavorano con impegno in mezzo a mille difficoltà.”
Laura, madre e docente di liceo, aggiunge:
“complimenti davvero…non dubito che nei campi avventura si impari molto, e che sia più figo dormire sotto le stelle che risolvere un’equazione o tradurre Orazio. È utile e opportuno che, in un momento di pervasiva delegittimazione dei contenuti e delle competenze sviluppati durante l’anno scolastico, anche radio popolare sia in prima linea in tale senso. Grazie ancora, da settembre sarà ancora più facile proporre a genitori e alunni i nostri progetti educativi.”

Che due persone intelligenti e reattive sentano “crescere” e ricordino “imparare” è un problema che riguarda la comunicazione umana. Quando ascolti (in audio, senza leggere su carta) quello che ti resta in mente è una ricostruzione approssimativa.
A scuola noi insegnanti lo sappiamo bene. Diciamo un termine che implica una certa complessità e la mente del discente ne ricorda uno di minor spessore, che però più coerente con la sua esperienza lessicale e cognitiva.

Credo che questo c’entri con l’oggetto della discussione: se facciamo un’esperienza multisensoriale  profonda sui piani percettivo ed emozionale, ci capitano (nelle mani, nelle orecchie, nelle narici, sulla pelle, …) dei significati orfani di significante; la sfida cognitiva dovrebbe essere passarli dal cuore alla bocca; dovrebbe essere un processo spontaneo appena da facilitare, che fa evolvere la persona perchè genera spessore umano, empatia, capacità di narrarsi, capacità di ascolto reciproco. Insomma: senso.
I bambini con scarsa esperienza sensopercettiva, privati di esperienze naturali (naturali in tutti i sensi: di viventi in evoluzione tra i viventi in evoluzione), troppo spesso accelerati verso il consumo rapido ed anaffettivo di esperienze stereotipate e prevedibili, hanno meno cose da dire.

Se non fanno esperienze con oggetti concreti faticheranno a manipolare gli oggetti astratti.
Se non svegliano l’intelligenza emotiva, saranno inibite anche le altre forme dell’intelligenza umana.
Se non avranno esperienze di qualità sensoriali da aggettivare, avranno meno cose da dire.
Impareranno meno nell‘anno di scuola nonostante lo sforzo e la dedizione (eroica) dell’insegnante.

Anche l’insegnante, ci scommetto, se cerca nei suoi ricordi e ricorda una settimana di vacanza… (magari a flirtare dietro un’ombrellone, o a rubare le mele, o forse a fare il pirla in motorino che se lo avesse saputo la mamma…). Orazio viene dopo, prima non dice niente, solo dopo assume senso, dum loquimur fugerit invida aetas. E l’equazione non è iniziazione. L’azione matematica, per diventare un gesto, ha bisogno a monte di altri gesti, analogici, chi invece pensa che le incognite della vita siano risolvibili in un numero, corre seri rischi psichici.

E qui ecco un altro tema difficile del processo comunicativo, quello delle collocazioni pregiudiziali: nel senso che stiamo diventando tutti nicchie, e questo è anche un bene, in un mondo massificato.
Il problema non è che apparteniamo tutti a qualche tribù, ma che ogni tribù affronta continuamente terreni ostili. Il primo modo di interpretare le  parole che riguardano il tuo gruppo, si basa sulle ferite che ti stai leccando, che quasi sempre sono ingiuste e immeritate; che tu voglia o no, quella è la prima griglia per decodificare le narrazioni che ti riguardano.

In realtà la frase incriminata è proprio di una maestra, di Monfalcone, anche se la riferiva non a una settimana nei boschi ma a un’oretta di teatro durante la quale, diceva, “i bambini hanno imparato più che un anno di scuola“.
Sì, lei aveva usato proprio il verbo imparare (… hem… almeno così mi ricordo). La frase m’è rimasta impressa da anni, perchè vi assicuro che in un anno con quella maestra lì, davvero speciale, ogni bambino impara davvero un sacco.
E’ noto: se sei ebreo (o gay, o carabiniere, o italiano all’estero… ) probabilmente avrai un ricco repertorio di barzellette, anche pesantissime, con cui ci si sfotte all’interno della “tribù”. Ma guai se qualcun altro, al di fuori di essa, racconta la stessa identica barzelletta: diventa, giustamente, odioso.

La domanda necessaria, rispetto allo spot, dunque è chiedersi: chi ascolta lo spot, è amico o nemico della scuola pubblica?
L’insegnante condannato a fare una scuola con classi sempre più numerose, ad andare in pensione a novant’anni per pareggiare la media con chi ci andava dopo sedici, schiacciato tra il sabotaggio ministeriale e la lobotomia televisiva, a cui genitori mai cresciuti delegano il figlio come a una babysitter, è da anni sempre più arrabbiato.
Quando uno è arrabbiato rischia di morsicare gli alleati. Attenzione che è poco resiliente.

Dire che la scuola ha bisogno di esperienza attiva, che non si può stare da 4 a 24 anni seduto su un banchino, che non c’è cognizione senza passione… significa andar contro la scuola? O invece è reclamare insieme un processo formativo più attivo, elastico, integrato, amorevole, colto, umano, degno…?

E’ il momento di riferire la terza persona che m’ha criticato: mia moglie, insegnante di scuola primaria. Appena è andato in onda lo spot in oggetto, orgoglioso della metafora della ghianda e della quercia, mi aspettavo un complimento; e invece: ma come, proprio tu che eri direttore di “La Ricarica” ti metti ad attaccare noi maestre?

Hai, che male! Voi cosa ne pensate? Non ditemi che probabilmente devo portare mia moglie a dormire sotto le stelle; questa risposta la so già.
Da voi aspetto tutte le altre.

10 Comments

  1. Gianna

    Sono una mamma e a me lo spot è piaciuto eppure sto dalla parte delle maestre con molta passione. E anche nella sanità dove lavoro ci sono un sacco di problemi e anche nella giustizia eccetera.
    Ho grande riconoscenza per gli altri che come me sgobbamo contro tutte le difficoltà e i tagli eccetera.

  2. laura

    chi impara, cresce. chi cresce senza imparare è fatto a viver come bruto.
    grazie comunque per l’opportunità di esprimermi, che mi ha dato modo di leggere un intervento profondo e cricostanziato, ma, a mio parere, piuttosto fallace. nessuno, credo, ha scritto o ha sollevato critiche perché ‘arrabbiato’. anzi. ha sollevato critiche perché la frase (anche quella corretta, che recita ‘cresce’ anziché ‘impara’) non è sempre vera.
    certo, non è sempre vero neanche il contrario. ma asserire il contrario, e metterlo come claim (e quindi come conclusione indiscutibile e defintiva) è una fallacia…:-)

    grazie ancora

  3. ChiBi

    queste maestre fanno come se fosse un attacco a loro e non al sistema scuola…

    Difendere la scuola pubblica non dovrebbe essere una difesa al ribasso dell’esistente,
    ma anzi probabilmente puntare al rilancio…gettare il cuore oltre l’ostacolo:
    tornare a fare le cose con passione… pretendere che l’esperienza entri finalmente e di diritto
    nei programmi scolastici…cosa è: una bestemmia questa?
    o solo chi ha i soldi e la cultura per iscrivere i propri figli in una scuola stenieriana o montessoriana ha questo basilare diritto?
    eh no!
    nella scuola per come è oggi manca l’esperienza come materia e fattore di crescita.
    negli anni 70, quando andavo a scuola io, le maestre erano delle “sovversive” e si applicava il metodo montessori alla faccia dei programmi ufficiali.
    sai mai che negli anni ’10 questo possa ancora succedere?
    magari nel fantastico mondo di pisapie… forse…tutto è possibile!

  4. Silvi

    Invece secondo me in questo articolo lei si è un po’ arrampicato sugli specchi. Quello che scrive è giustissimo e in alcuni passaggi anche particolarmente bello, ma non c’entra niente con lo spot in questione, sul quale anch’io la penso come le due insegnanti.

  5. paolo da carugate

    fintanto che la maggior parte degli insegnanti si sentiranno coinvolti solo come lavoratori e non come intellettuali, sarà un gran problema; e non dirmi che questo non accade, che non è vero!
    Ci sono insegnanti bravissimi ma sono delle mosche bianche, purtoppo la norma del corpo docente è ben altra.

  6. laura

    forse ho capito da cosa si sia generato l’equivoco, almeno per quanto mi riguarda: non sono una maestra della primaria, ma insegno in un liceo classico, pubblico, corso comunicazione.

    ossia, un corso che forse, e dico forse, giusto per non peccare di immodestia, ha realizzato, negli ultimi dieci anni, un progetto educativo in cui si incrociano le conoscenze con le competenze (prime fra tutte, quelle di cittadinanza e digitali…). così posso essere serena nel dire che sì, ci consideriamo lavoratori: ma della conoscenza, dell’esperienza, dell’arricchimento.
    ed è anche per questo che non credo che si cresca né si impari di più in una settimana fuori dalla nostra scuola che in questa.

    i nostri studenti maneggiano blog, fanno video creativi o di divulgazione scientifica, fanno stage in giornali o in università, allestiscono spettacoli teatrali, vanno in senegal con la scuola di diritti umani, vincono premi come giornale di istituto impegnato nella lotta alle mafie, seguono corsi interni di arabo e cinese, vanno in romania negli orfanotrofi. e, certo, traducono orazio e svolgono equazioni. ma sanno bene che anche quelli sono strumenti che attivano la loro competenza critica…

    grazie a tutti!

  7. mr. Cannonau

    Allora il problema è questo quà, no? che mia figlia quelle cose nella scuola normale e non se le può neanche sognare e che Laura è una professoressa speciale in una scuola rara e invece dovrebbe essere sempre così, non un’eccezzione!!!! Laura, non saresti più contenta se la tua fosse la NORMA ?

  8. teresa ruju

    sono molto d’accordo con una scuola di esperienza :ho fatto l’insegnante per 42 anni cercando di appassionare i bambini,facendoli uscire dai contesti usuali, ben consapevole che non esiste apprendimento se non c’è relazione e se non c’è passione.credo che i miei alunni siano cresciuti in un clima di vigore affettivo che li ha formati inducendoli a guardare e a muoversi nella realtà senza troppi timori, sia che trascorressero una giornata in un bosco sia che componessero musica al computer o preparassero, in gruppo, un power point sui pianeti. La Gelmini ,povera,deve aver fatto una pessima scuola

  9. lodovico

    Si cresce imparando, e non solo quello che si insegna a scuola. Ma la crescita è un processo discontinuo, fatto tanto di accelerazioni improvvise e periodi di lentezza o difficoltà. Mi sembra riduttivo impostare su una ipotetica contrapposizione tra apprendimento scolastico ed ed apprendimento alter-nativo (letterale, cioè che nasce in contesti diversi) un giudizio di merito.
    Negli ultimi anni, per esempio, mi capita di stupirmi come un bambino di fronte alla bellezza della fisica nelle sue concrete applicazioni: quanto avrei voluto che la mia prof. del liceo fosse capace di suscitare in me identico stupore 12 anni fa!
    Allo stesso modo saperi ricevuti da Maestri (maiuscoli, per indicare chi sa trasmettere contenuti profondi proprio perchè ne ha fatto esperienza vitale) sono stati immediatamente validi per permettermi di capire e orientarmi in situazioni della mia vita.
    Non si può mai sapere chi, che cosa o quale insospettabile evento fungerà da catalizzatore del cambiamento. Ci si può solo preparare, creare lo spazio emotivo e razionale insieme per il cambiamento.

    Indi per cui: non arrendiamoci alla frammentazione dell’esistente e dell’esistenza. Le nicchie sono un bene, nella misura in cui sono fatte per promuovere ciò che preservano. Promuovere è comunicarlo, renderlo comune, metterlo a disposizione della comunità, perseguire la costruzione di nuovi tessuti connettivi in una società sfibrata. E le nicchie, nella società liquida, post moderna o chiamatela come volete, sono nei luoghi più inaspettati: al campo avventura tanto come nel liceo dela comunicazione descritto sopra. Mi pare che più che mai oggi sia attuale la prospettiva di comunità educanti/autoeducanti (leggasi società, paese, città, parrocchia, circolo etc.) che fanno esercizio costante di dialogo e mutuo apprendimento, accettando l’idea che nessuno può dirsi titolare della verità, del significato della vita e dell’esistenza (tranne Uno solo, nella mia personale prospettiva che però non posso imporre, ma solo cercare di comunicarvi).

    Saluti, Grazie per avermi fatto pensare.
    Lodovico

  10. laura

    direi che la mail di Lodovico sia definitiva. e lo ringrazio per aver chiarito le idee anche a me.
    quanto alla domanda precedente…certo, lo vorrei. ma con gli scarsissimi mezzi che il nostro governo ha riservato, riserva e riserverà alla scuola statale, non credo che riusciamo a fare più di tanto. non siamo eccezioni, voglio dire solo questo. siamo persone che fanno il loro lavoro nonostante gli ostacoli, e che coinvolgono i loro studenti. e anche questo, credetemi, è aiutare a crescere…grazie
    laura

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