Marco Geronimi Stoll

pubblicitario disertore

Casi, Corsi, ferri del mestiere, i più letti, Smarketing

Smarketing e fundraising

Ecco il mio contributo offerto all’ISCOS della regione Marche sul fundraising per i progetti di cooperazione internazionale.
È un settore in cui c’è molto da fare: gli errori di comunicazione e di strategia sono frequenti e ripetuti. Facilmente possono affossare quei progetti che vorrebbero aiutare.
L’approccio basato sullo smarketing può evitarne diversi, ma per strutturare un metodo ci vuole una sperimentazione più sistematica e queste sei domande chiave possono aiutare.

Ad Ancona, invitato dall’ISCOS della regione Marche, ho partecipato a un word café (cioè un lavoro a piccoli gruppi basato su questo metodo) dal titolo Geopolitica e Terzo Settore.

Con me c’erano rappresentanti di tante realtà della cooperazione internazionale e anche il giornalista internazionale Gabriele del Grande e la direttrice del canale TV Babel Beatrice Coletti,  la prima TV per i nuovi italiani.

Uno streaming del lavoro è qui marchesolidali.com

Anteprima: abbiate pietà per i bambini norvegesi

Per farsi due risate, chi non l’avesse visto, si goda “Radi-aid”,  la parodia geniale delle grandi campagne di fund raising pietistico, basate su cantanti, sentimentalismi e, tanto, su stereotipi.

Il clip incita gli africani a raccogliere i loro termosifoni per regalarli ai poveri norvegesi intirizziti da un’inverno più rigido del solito: «Non possiamo far finta di niente, gli africani hanno la possibilità di fare qualcosa: il calore che abbiamo dobbiamo condividerlo… Non possiamo chiudere gli occhi. Come una brezza tropicale manderemo i nostri caloriferi… regaleremo un sorriso ai bambini norvegesi»
Anche noi l’abbiamo guardato prima di cominciare. Per un comunicatore il clip è ancora più esilarante: le inquadrature, il ritmo, le sequenze, le retoriche… è un genere. E la parodia azzecca con precisione chirurgica tutti gli stereotipi di maniera.

Assuefazione sentimentale e calo della generosità

Ci fanno venire le lagrimucce quando sono bambini, hanno pelle nera, grandi occhi piagniucolanti, moccio al naso e mosca d’ordinanza sulla guancia. O meglio, che ce le faceva venire, le lagrimucce: questa malcelata “pornografia” della pietà è ormai datata, alla lunga ha fatto lo stesso effetto dei nudi in pubblicità: a furia di vedere ciò che dovrebbe eccitarci ( o commuoverci) arriva l’assuefazione; anzi, peggio: l’anestesia; e siamo meno umani.
Infatti oggi l’indirizzo del marketing della pietà è piuttosto mostrare “i negretti sorridenti“, e non cito a caso l’epiteto “negretti”: la cultura è quella. Verificate voi stessi: per vedere l’immaginario diffuso c’è uno strumento facilissimo: googlate qualcosa come “africa children” e guardate che immagini escono.

A caccia di domande buone

Per quel che ho capito della tecnica del World Café, un aspetto importante è espresso in questa citazione di John Ciardi:

“A una buona domanda non c’è mai risposta. Non è un bullone da stringere ma un seme da piantare, per portare tanti semi e rendere più verde il paesaggio delle idee”.

E di domande buone ne sono emerse un sacco. Ne riporto qualcuna che è passata dai due tavoli cui ho partecipato. In un paio di casi non resisterò alla voglia di stringere qualche dado sulla vite delle risposte, ma sono risposte che suscitano nuove domande.

1 L’associazione sa chi è?

Ogni organizzazione umana ha un’identità: come quella delle singole persone può essere confusa, nevrotica o schizofrenica, oppure più equilibrata e capace di percepire, organizzarsi, decidere e immaginare. Non esiste in natura un’organizzazione perfettamente sana né totalmente malata, ma nelle infinite sfumature tra questi due poli dobbiamo sapere verso quale dei due vogliamo andare. E per saperlo occorre sapere meglio e possibile chi siamo.
Io, volontario, so davvero cosa contraddistingue la mia? Che differenza c’è tra un’associazione e un’altra, oltre al banale fatto di poter dire “noi”?
Alcune non sembrano troppo dei brand, come le marche commerciali, per cui le poche che sanno raccontare la propria identità è solo perché sono sono passate da un ufficio marketing che glie l’ha confezionata a tavolino, come se fosse un prodotto sul mercato?

Il problema dell’identità mi sembra legato alla questione della comunicazione interna; molti dei partecipanti lo collegavano al tema del continuo turn-over: se cambiano continuamente volontari, dipendenti e capi, si perde continuamente la storia dell’associazione e si deve continuamente ricominciare da capo.

2 Le grandi ONG pescano a strascico?

Quando si vedono spot in TV o grandi manifesti per le strade per dare il 5‰, che percentuale di quello che devolviamo finisce a pafgare l’advertising?
Il contribuente pensa di aiutare i progetti e invece circa metà dei soldi se ne va in pubblicità (a finanziare testate di petrolieri, speculatori edilizi, banche armate… metà va alla filiera berlusconiana); si aggiungano le spese organizzative e burocratiche di una grande dimensione di scala, cosa rimane per i progetti?
Questa comunicazione drogata in cui spendi 10 euro per riceverne 15 è come quelle reti a strascico che uccidono tutti i pesciolini che incontrano per venderne sui mercati solo una piccola parte: i pesciolini sono le piccole associazioni, cui quei 10 euro sono sottratti.
Anche in questo mondo “della generosità” dunque ci sono i grandi che mangiano i piccoli? se sì, allora anche in questo mondo occorre ribadire che c’è un conflitto tra due metodi: tra il “marketing” e quella conversazione a basso costo tra nicchie che noi chiamiamo “smarketing”.

3 Cosa raccontare?

Quando io come cittadino finanzio un progetto, devo poterlo seguire. Sapere risultati, sviluppi, anche problemi e vincoli… devo percepirlo come un processo. Per questo c’è Internet, che può essere formidabile.
“quando seguiamo i progetti siamo troppo indaffarati per seguire anche la comunicazione, e poi dove andiamo noi non c’è internet, di solito non c’è neanche la luce!” diceva un volontario: aveva uno sguardo spazientito che io interpretavo: “con tutto quello che dobbiamo fare, pretendete anche questo?”
Gli rispondevano altri: se presti ai ragazzi locali una videocamera o una macchina fotografica, ci mettono un’ora a imparare a usarla tecnicamente e a settimana a imparare ad usarla linguisticamente. Noi ci mettiamo anni. Quando hai delle cose da dire, impari in fretta a comunicare. I risultati si vedono.

Perché venire raccontati dagli altri è sempre pericoloso: ogni umano “A” che descrive l’umano “B” esercita un potere indebito e illeggittimo, sia quando lo critica sia quando gli fa i complimenti (su un certo comportamento, su una certa corrispondenza a delle attese…) Occorrono fiducia reciproca, sintonia, possibilità di controllo. Meglio favorire l’auto-narrazione. Se no racconta di te stesso, racconta delle storie che ti hanno colpito. Ma rompendo i nostri cliché, gli sereotipi e i pregiudizi che abbiamo qui in Europa.
Altrimenti c’è sempre rischio di un “effetto Pigmalione” (adeguarsi alle attese) o dell’ “autoavverarsi delle previsioni” (quante volte le narrazioni pietistiche hanno peggiorato le condizioni economiche e sociali!)

4 La ricerca del grande sponsor. Se lo trovo, è davvero un successo?

Questa è la testimonianza mia di quando stavo dall’altra parte: in un’azienda energetica verde che ogni tanto donava qualche euro (non tanti, ma anche quei pochi risultavano preziosi). C’era una processione di bravissime persone in condizione umiliante; tra essi molti ragazzi “cravatta e valigetta” che avevano fatto tutti gli stessi corsi di fundraising e dicevano le stesse cose… che tristezza!
Per uno che accontentavamo 99 restavano delusi. Il nostro arbitrio era assoluto. Il nostro contributo essendo temporaneo poteva solo rimandare i problemi, mai risolverli. Gli inchini, la subordinazione, le dichiarazioni di gratitudine erano imbarazzanti, in una gerarchia valoriale capovolta.
Con sponsor più grandi, posso immaginare, la scala delle proporzioni è almeno di uno a cento. Al tavolo di Ancona c’era una fundraiser che raccontava questo episodio: quando finalmente è arrivata davanti a quell’inarrivabile scrivania del super-sponsor, si è resa conto che non aveva niente di pronto da dire: era stato così difficile accedere al colloquio che tutti gli altri impegni erano passati in secondo piano.
Se navighiamo i siti delle aziende più “sporche” (inquinanti, armate, corrompenti, colluse) vediamo che tutte hanno l’immagine ripulita da qualche opera buona e filantropica che finanziano, donando con generosità pelosa quelli che per loro sono pochi spiccioli.
In genere queste multinazionali hanno una persona per bene, colta e sensibile che fa da interfaccia tra l’incudine e il martello , e che convintamente dice “almeno facciamo qualcosa di buono”. Ne ho conosciute un paio: davvero persone squisite, purtroppo.

5 Perchè dovrei donare?

Pochi decenni fa la foto piangente di quelli che chiamavamo con condiscendenza “negretti” ci commuoveva e davamo la banconota da mille lire all’uscita della chiesa, questo ci faceva sentire buoni; lo scopo era evidente. Critichiamolo pure: autoassolvimento, perbenismo, buonismo; colonialismo caritatevole di chi si sente superiore. Quella forma di beneficenza era, per quasi tutti, l’unico canale di percezione e azione. C’era del buono?

Il buono che c’era dentro secondo me consisteva nel dare un po’ di senso alla nostra vita. La quotidianità di noi europei è abbastanza banale, prevedibile.
Nasci, lavori, consumi, lavori, consumi, lavori, consumi, muori, amen. Pochi scampoli di passione, amore, avventura. Pochi eventi esistenziali da cui imparare.
Non dico affatto che per sentirci vivi ci vorrebbero guerre, carestie, epidemie (anche perché da noi le cose stanno peggiorando in fretta ed è meglio restare scaramantici).
Dico che siamo tutti orfani di senso; che “fare del bene”, se diventa più attento, impegnato e interattivo regala all’uomo occidentale quello che gli manca nella carestia spirituale e civile che oggi soffre. Se ti attivi e dai una mano ti senti meno inutile, scopri che la tua vita almeno a qualcosa serve.
È molto diverso da sentirsi “più buoni”; il dono è reciproco, il contatto è più caldo.
Appunto: caldo. È il contenuto più nascosto della parodia Africa for Norway, nel senso: davvero noi europei siamo diventati troppo “freddi”, guardate le facce in metropolitana la mattina; gli altri lo sanno vedere e davvero meritiamo un po’ di pietà.

5 Donare è una forma di consumismo?

C’è una differenza abissale tra dare dei soldi ogni tanto e seguire un dato progetto per vari anni.
Mi viene in mente una raccolta che abbiamo seguito per Eva, l’Eco Villaggio Autocostruito dai terremotati di Pescomaggiore (l’Aquila) (il caso è alla voce w009 di questo link)
Chiunque ha donato più di 250 euro è diventato “cittadino” del paese ricostruito, cioè membro della “Tavola Pescolana” che si riunisce ogni anno alla festa del patrono e delibera l’uso futuro delle case costruite.
Un’idea giusta, secondo me, è passare da una raccolta saltuaria alla creazione di gruppi che adottano e seguono un progetto. Anche perchè dare soldi non basta, se si offre attenzione, capacità critica, testimonianza allora il processo è evolutivo e reciproco, genera responsabilità e competenza.

6 Si può “vendere” il donare?

L’idea dell’adozione di un progetto a lungo tempo non è originale, ma è di gran lunga preferibile ai cartelloni giganti, alle soubrettes scollacciate che in trasmissioni cretine ti chiedono un SMS non si sa bene per cosa, ai nugoli di pseudovolontari pagati a provvigione che ti adescano fuori dal teatro con tecniche da venditore per conquistare il tuo RID bancario.

Chi bara al gioco crea un effetto boomerang, e chiunque voglia bene a quelle associazioni non se lo augura, ma lo teme.

———————-

GEOPOLITICA E TERZO SETTORE: COMUNICAZIONI COMPLESSE
Dal locale al globale: azioni per geopolitiche *
7 marzo 2013 – ore 17,00 – 19,45
17,00 – Registrazione partecipanti – Formazione tavoli di lavoro per Giornalisti, Associazioni del Terzo Settore e Studenti
17,15 – World cafè con gruppi di lavoro misti: giornalisti, esperti di comunicazione, blogger, cooperanti, volontari

17,30 – Sessione 1 – Come migliorare la nostra comunicazione?
18,00 – Sessione 2 – Ambasciatori di significato
18,30 – Sessione 3  – Sintesi e proposte operative
18,45 – Galleria dei lavori
19,00 – Interventi finali a cura di:
• Gabriele Del Grande – Blogger
•  Marco Geronimi Stoll – Esperto di comunicazione etica per la decrescita
•  Beatrice Coletti – Babel Tv
• Laura Mandolini – Giornalista de “La Voce Misena”
• Lucio Cristino – ETV
• Monica Di Sisto – Giornalista sociale
19,45 – Aperitivo Solidale
Luogo: Ancona – Casa delle Culture

 

2 Comments

  1. Bel pezzo Marco!
    Concordo in pieno con molte delle tue osservazioni.
    In particolare, sullo scambio tra chi dona e chi riceve, che nasce secondo me dal riconoscere piena dignità e diritti a chi riceve.

    Come associazioni, e come organizzazioni coordinate dentro Marche solidali, iniziamo a prendere consapevolezza del ruolo importante che abbiamo, un ruolo di testimonianza verso la società, che è fortemente radicato nei nostri progetti, e che deve diffondersi, dilagare, attraverso la comunicazione.

    A presto!,
    Vincenzo

  2. Grazie Marco per aver condiviso gli elementi salienti di questo interessante word café; solo attraverso il confronto delle diverse esperienze e attività è possibile attivare momenti di crescita personale e professionale come quello che abbiamo vissuto ad Ancona.

Leave a Reply to Annulla risposta

Theme by Anders Norén