Riassunto

Cibo, sesso, senso di sicurezza, amore, accettazione nel gruppo, salute.
Come stanno nell’era di Facebook i sei bisogni fondamentali della razza umana? Nella prima metà dell’articolo parlo dei guai, nella seconda di come riprenderci il valore di quello che ci fa felici.

Sei cosette da raddrizzare

Guardate che strano: osservate cosa succede ai nostri bisogni. Quelli fondamentali della nostra specie sono gli stessi da cinquecento millenni.
Allora come adesso chiediamo alla vita sei cose:
cibo
sesso
sicurezza
amore
accettazione nel gruppo sociale
salute.
La civiltà industriale, andandosene, ci ha immerso in questo mondo più liquido: incerto, ambiguo, complicato. In cui guardiamo l’adesso ma non il dopodomani.
Cosa ne viene fuori?

Il cibo

Oggi i poveri sono più grassi dei ricchi, mediamente; il corpo diventa uno strumento di accumulazione, una specie di banca psicologica delle cose inconsce che vorremmo incorporare. Tu credi di comprare un hamburger, una cocacola e delle patatine, invece è McDonald’s che ti entra nelle molecole. Vale per quasi tutto quello che metti nel carrello, tu credi di prendere del cibo e invece è il cibo che prende te.
È una faccenda con tanti paradossi ridicoli, ad esempio: ingerire prodotti dietetici per dimagrire; o anche comprare cibo biologico e buono in aggiunta a quello industriale.

Il sesso

Lo dico senza moralismo, perché se una cosa ti dà piacere (tra adulti consenzienti) è buona a prescindere; e auguro a tutti di godervela tanto.
Però… questa reificazione del corpo (cioè il corpo considerato come una cosa, come un oggetto) non somiglia minimamente al sesso con cui la nostra specie si è divertita nei precedenti 499,9 millenni (*).

Oggi si gode di meno, siamo meno fertili, siamo meno felici. Abbiamo il corpo meno sensibile, quasi anestetizzato, abbiamo le fantasie più stereotipate. Finalmente ci siamo liberati dei tabù, ci stiamo liberando (con fatica) della misogenia, dell’omofobia, degli stereotipi maschilisti, ma in cambio stiamo considerando il nostro corpo come “prodotto” del marketing di noi stessi. Ne deriva ad esempio il body shaming, cioè ci guardiamo allo specchio e non ci piacciamo: siamo sempre troppo grassi, troppo magri, dell’età sbagliata, eccetera. Così indossiamo sempre lo stesso sorriso-facebook ogni volta che qualcuno ci guarda: dobbiamo essere un prodotto appetibile sul nostro mercato. A letto pensiamo più alla performance e allo share che alla comunicazione e alle delizie giocose dell’eros. Che peccato!

La sicurezza

In un’epoca fragile, in un’economia della scarsità programmata, con un miliardo di poveri scacciati a nord dalle nostre guerre per le materie prime e dai cataclismi climatici… la sicurezza è un prodotto di marketing politico. Pessimo ma terribilmente efficace.
Nei manuali di marketing c’è scritto che la paura non vende: non è vero, vende benissimo, solo che la può vendere solo chi lo fa di mestiere, cioè il candidato dittatore. È così da due o tre millenni.
Se la nostra classe media si sta estinguendo di chi è la colpa? Con chi ti arrabbi se non stai dietro al mutuo, se sei rimasto disoccupato, se la tua pensione non vale a pagare l’affitto, se le cure mediche te le devi pagare? con quelli che hai votato tu negli ultimi decenni? con questo stile di vita? nooo, la colpa è degli immigrati.
Ci crede chi vuole crederci: c’è sempre un po’ di complicità inconscia tra truffato e truffatore. È la complicità, la cosa che si diffonde sui social. Sia chiaro, non è un’idea politica, neanche un’ideologia, anche se vanta bandiere e partiti è solo una narrazione pervertita, e come tale si propaga benissimo sui social.

L’amore

Guarda un po’, la parola più importante di tutte è diventata melensa, banale. Abbiamo il cuore più chiuso. Non sappiamo che storia affettiva abbiamo. Siamo meno sentimentali anche se a volte siamo catturati dal sentimentalismo e piangiamo davanti alla TV. Le passioni diventano ossessioni, mai relazioni. Spesso diventiamo cattivi, insofferenti, aggressivi. Le strade delle città sono diventate ostili, non ci si fida reciprocamente.
Il cattivismo è diventato uno stile, il cattivo si compiace di essere così; tranne quando è dalla parte della vittima, e allora si dispiace di non essere ancora più bestia. È una diseducazione cross-mediale: la TV l’ha sdoganata e i social l’hanno amplificata.

L’accettazione sociale

OK, non è facile diventare un’unica tribù di 7 miliardi; ma guardate le facce in metropolitana, fate caso a quante sorridono: solo i bambini e gli immigrati, strano, no?

Non vogliamo essere 7 miliardi di tribù con un solo appartenente, vero?
Nessuno esiste se non è pensato dagli altri, e se noi siamo meno capaci di pensare agli altri, idem gli altri per noi. Diventiamo trasparenti. Allora si creano i succedanei: si diventa marketer di se stessi, si simula, si cerca di piacere, si imitano i modelli vincenti. Si indossa un’altra identità. Se giriamo per strada sembra un carnevale triste in cui siamo tutti travestiti ma non ci divertiamo neanche un po’.
È pazzesco che quando qualcuno visita un villaggio del cosiddetto terzo mondo, dove la gente ha problemi ben più seri, si meraviglia che i sorrisi sono più profondi e gli sguardi più franchi. Ma come, ci si chiede: non sanno cosa mangiare stasera eppure sorridono? com’è possibile?
… meglio chiedersi invece cosa c’è di sbagliato alle nostre latitudini.

La salute

Il corpo è inquinato. Chimicamente e psicologicamente. Noi non siamo più il nostro corpo, lo consideriamo un abito, da indossare meglio che si può. Lo mortifichiamo col cibo pessimo, con lo stress, con la sedentarietà, ma non vorremmo che raccontasse la nostra storia.
E allora giù medicine.

Dobbiamo costruire un ecosistema delle nostre narrazioni

Voi credete di comprare una sottiletta, un’automobile, una borsetta, ma non state comprando realmente un oggetto: comprate un’esperienza, un messaggio, soprattutto comprate un’idea di voi stessi. Le compagnie non vendono davvero le merci, lo sapete già. Vi vendono un pezzettino della vostra storia. Una storia artificiale.
Fino a ieri avevano bisogno di inculcarci questi desideri con il marketing. Compravi un profumo non per sentirne l’odore ma per essere più sexy. Pagavi quella merendina per essere una brava mamma, quell’auto per sentirti vincente, eccetera.
Oggi quel marketing funziona ancora, ma molto meno. È arrivato Facebook, è arrivato Amazon, sono arrivate mille app e siamo solo agli antipasti della nuova epoca.
Oggi un’azienda non è più una fabbrica con dentro gente che lavora. Non c’è più un “dentro” e un “fuori”. Non dice più “io produco, tu consuma”.
Una corporation oggi potrebbe licenziare tutti i suoi dipendenti, cacciare il CEO, tenere solo una decina di coordinatori e continuare a vivere benone facendo lavorare voi inconsapevolmente per lei. Ecco come.
Attraverso la rete, generiamo noi i contenuti: i desideri, le fantasie, le esperienze, le trovate, forniamo alle corporation la mappa dei bisogni, dei sogni, delle paure, delle frustrazioni. Le articoliamo, le dettagliamo. Le incrociamo.
Così non hanno bisogno di inventare mille nuovi bisogni, glieli insegniamo noi.

E siccome il nuovo valore, oggi, sono le informazioni molto più del denaro, le organizzazioni estraggono valore da noi. Basta incrociare quei dati ed indirizzarli un po’ per pervertirli.

Diventare coscienti del valore che creiamo

Immaginatevi un contadino di fine ottocento che, stufo di zappa e di fame, entra in fabbrica. Lavora duro ogni giorno tra fumi e scintille eppure all’inizio non sa nulla del valore che produce. Non ne ha le competenze né matematiche, né linguistiche, né ideologiche, sa solo le parole del suo dialetto, ricche in cascina e povere in fabbrica. Lavora e basta. Solo col tempo “prende coscienza” che produce valore e plus-valore.
Per riuscirci ha bisogno di scambiare comunicazione coi compagni di lavoro, di imparare a leggere, di inventare nuove parole in una nuova lingua.
Noi siamo simili a lui, ma su un altro piano. Lo scenario non è più la fabbrica, non è più un ingranaggio titanico che fonde l’acciaio bruciando tonnellate di carbone. Sono “solo” elettroni che danzano, zeri e uni che viaggiano alla velocità della luce in quantità stellari. Un flusso leggero eppure immenso in cui galleggia tutto: esattamente cibo, sesso, sicurezza, amore, accettazione e salute. È così che creiamo valore per il nuovo sfruttamento.

Occorre un ecosistema disobbediente

Alcune parole chiave sono: co-evoluzione, remix e reinterpretazione.
Secondo me quel bracciante dell’ottocento ci somiglia. Inurbandosi ha perso un dialetto che era formidabile per espressività, conoscenza della natura, ricchezza di significati. Lo ha voluto perdere perché era una cosa da poveri, di cui vergognarsi. Ha imparato l’italiano, è diventato soggetto politico: aveva ragione Dario Fo quando diceva “l’operaio sa cento parole, il padrone ne sa mille, ecco perché è lui il padrone”. Ma aveva ragione anche Pasolini, quando diceva “ll contadino che parla il suo dialetto è padrone di tutta la sua realtà”.

Per noi oggi il “dialetto” è il mondo analogico: abbracciarci, mangiare un pane fatto di vero grano, guardare un tramonto con la persona amata, giocare coi figli, strimpellare la chitarra con gli amici dopo aver bevuto un bicchiere di vino in più.
Non dimentichiamocelo, il dialetto. Significa uscire la sera, veder gente, avere amici fidati, raccontarsi storie sincere e che spaziano a lungo nel tempo…
Tutti dicono che “la gente” esce meno la sera; la vecchia TV è stata sostituita dai pispoli di qualche device, così la TV è spenta ma dopocena siamo ancora sul divano.

Uscite una sera sì e una no

Nell’altra, in cui stiamo sul divano, impariamo i nuovi linguaggi. Ma non in modo passivo, non come il contadino col cappello in mano che rispondeva in dialetto al padrone che gli domandava in italiano: non con una inferiorità gerarchica e decisionale.

No: in modo co-evolutivo, remixato e reinterpretante.
Impossessiamoci del valore che ora stiamo regalando a Facebook, a Amazon eccetera. Anzi, riprendiamocelo, perché è roba nostra.

Come si fa?

Scambiandoci valore tra di noi, innanzitutto.
Ad esempio, mi stufo di vedere gattini e cagnolini su FB, ma quando il mio gatto fa una cosa buffa mi viene subito voglia di fotografarlo e di postarlo; in quel momento, invece di divertirmi interiormente e segretamente col mio gatto, vedo subito qualcosa da “vendere” agli altri, e questo mi fa percepire un po’ meno la sorpresa e il divertimento. Come se altrimenti quella cosa buffa che il micio sta facendo non esistesse e fosse destinata a non essere ricordata: un’occasione persa, insomma un valore sprecato. Non so se è giusto o sbagliato postare i gattini, non giudico (**).
La domanda è solo strategica. Lo devo postare? forse vi sembrerò pedante, ma direi: solo se riesco a trasformarlo in un atto poetico, perché avere qualche like distratto per un mio narcisismo non è il mio scopo. Quel click è valore da non sprecare.

Dimmi qualcosa di co-evolutivo

Mi conviene generare qualcosa che sia co-evolutivo: in cui cresco io e cresce anche chi mi segue.
Certo, magari vi posto quel minuto di danza contemporanea che molti troveranno palloso, ma perché no? A me emoziona e lo condivido, poi non dobbiamo piacere a tutti: non siamo un prodotto da vendere. Siamo una storia da raccontare.
Abbiamo ancora amore e intelligenza e non vogliamo più sprecarli.
Valiamo, abbiamo valore, i pochi che mi cliccheranno riceveranno qualcosa di più prezioso.
Per questo occorre una disciplina del tempo: dobbiamo decelerare.
La tastiera ci fa essere sbrigativi, fare gesti rapidi; troppo. Basta pensare qualche secondo in più prima di schiacciare il mouse. Rilassiamoci, restituiamo al cervello il tempo di respirare. Quella pausa che discerne e sceglie è molto importante per riprenderci il valore.
E poi occorre bilanciare meglio le cose che leggiamo (gli input) e le cose che diciamo (gli output). La legge che l’uomo ha una bocca e due orecchie, per ascoltare più di quanto debba parlare, vale anche qui: io sono solo e ci sono miliardi di cose interessanti sul web. Quando ne leggo una che è davvero buona, la condivido. Parecchi fanno così: diventiamo dei filtri facilitatori, offriamo a chi ci segue l’occasione di conoscere qualcosa che non sapevano. Noi scegliendo abbiamo fatto un lavoro, un lavoro bello per noi, e lo condividiamo, generiamo valore anche per gli altri. Reciprocamente; e si crea una comunità che percorre il canale mainstream quasi clandestimamente.

Col Lego ci faccio quello che voglio io

Più le esperienze sono remixate, più sono disobbedienti.
Il web è come un’immensa scatola di mattoncini Lego, di dimensioni enormi; tanto più l’ecosistema delle nostre relazioni è in grado di assimilare alcuni mattoncini e costruirci qualcosa che ha senso, quanto più quel qualcosa sarà un nostro valore recuperato.
Remix significa questo: è difficile inventare qualcosa di nuovo e inedito, quando miliardi di umani scambiano contenuti contemporaneamente. Quasi tutto è già stato detto, cantato, fotografato, messo in poesia… la nuova arte è combinare, mixare, selezionare nuove forme con qualcuno di quei miliardi di mattoncini.
Non di comporre diligentemente quello che c’era fotografato sulla scatola di cartone del Lego: che noia!

Remixate nel giorno che non uscite.

Quando usciamo e facciamo qualcosa di interessante diamo senso a quello che succede: raccontiamolo. Perchè si spera che facciamo esperienze evolutive e disobbedienti: un corso, una manifestazione, un evento culturale, un film, … ecco: raccontiamone il senso, mostriamo che davvero “un altro mondo è possibile”.

 

Illustrazione: Madonna con Bambino di Jean Fouqet, 1452-54, particolare

(*) in cui il matriarcato ha governato fino al neolitico; nel nostro gioco che considera mezzo milione di anni come cifra esatta significa per 499,7 migliaia di anni, quindi non fermatevi sull’icona del cavernicolo che prende le femmine a clavate, sulle le schiave rubate e su tutte le confusioni tra sesso e potere che conosciamo dagli  ultimi pochi millenni patriarcali. Il nostro sesso è molto più antico.

(**) anzi in un angolo del cervello serbo la sensazione opposta: che forse stiamo imparando a divertirci “fuori dalla mente” e non dentro, e quindi forse anche il gattino ci sta.